LA CASA DI DAVIDE

LA CASA DI DAVIDE

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La Casa di Davide - Articolo di Lucia Licheri - Associazione A.P.S. La Punta della Sfera - Roma

“…Quando Davide ha deciso di abbandonare questo Mondo Terrestre, cavalcando il suo Drago preferito per raggiungere il suo “nonno Grillo”, il messaggio che ha lasciato ai suoi genitori è stato quello di: aiutare i bambini e gli adolescenti malati, i loro familiari e gli operatori affinchè gli stessi ragazzi possano passare la maggior quantità possibile di ore liete, lontani dal dolore e dalla sofferenza che la malattia, le terapie e l’ospedale rubano loro”

Così nasce la casa Di Davide grazie al sogno di un bambino guerriero su un Drago rendendo la sua vicenda fantastica, la sua vita straordinaria, dopo la diagnosi della malattia a soli sei anni, ha saputo colorare questa vicenda con forza e vitalità, con enorme coraggio.

L’amore grande che ha donato e ricevuto, rimanendo indelebile nei ricordi di chi l’ha conosciuto personalmente e di chi grazie alla nascita dell’Associazione, creata dai suoi genitori su sua richiesta. All’interno della Casa e dell’Ospedale Bambin Gesù, collabora un grande esercito di volontari e medici, al sostegno dei bambini ricoverati negli ospedali pediatrici e delle loro famiglie, rendendo vivo il ricordo e il desiderio del piccolo Davide.

Egli rivive in ogni bambino che come lui affronta e combatte la malattia vestito da guerriero sul suo Drago.

La prima volta che ho varcato la soglia della Casa l’ho fatto in punta di piedi, anche se non era la mia prima esperienza con i malati oncologici, non sapevo cosa avrei trovato.

Si crea un micro clima sociale all’interno di questi luoghi, che varia notevolmente ogni giorno a seconda delle notizie che vengono riportate per ogni bambino dall’ospedale.

Entro e vedo un’orda di ragazzini urlanti che giocano in cortile. Chi con mascherine, chi senza, che mi sorridono e mi guardano curiosi con le loro testoline pelate. Mamme che cucinano o sbrigano le faccende, cercando di mantenere una parvenza di normalità, chiacchierano si aiutano, tanto diverse quanto somiglianti.

Lo stesso sguardo impaurito di sofferenza e dolore.

Molte hanno superato la prima fase di rabbia e incredulità e si trovano ai posti di combattimento, sostenendo le altre e dando loro consigli e informazioni.

Perché non possono cedere, non possono piangere, devono combattere accanto ai figli, devono essere le colonne, l’appoggio.

Quando un bambino è costretto a lasciare la propria casa, le proprie abitudini, il proprio nido all’interno del quale si sente protetto, viene destabilizzato.

Soprattutto in un’età dove è difficile comprenderne le motivazioni per quanto queste vengano spiegate.

Sono catapultati in stanze asettiche, sottoposti a visite estenuanti e a terapie a volte dolorose.

Si gonfiano, perdono i capelli, l’appetito, le forze. Convivono con un CVC (catetere venoso centrale, per la somministrazione di farmaci) vicino al petto, con il loro appuntamento giornaliero inderogabile con i medicinali.

Indubbiamente la figura medica è necessaria e costante, per arginare i sintomi e combattere la malattia.

Ma l’universo del bambino, le sue emozioni, le sue paure, la rabbia che lo costringe ad un isolamento o a luoghi sconosciuti, con persone estranee che lo tastano e lo bucano, è altrettanto importante, se non fondamentale.

Come spiegare a un bambino perché tutto questo accade? Come spiegargli che non potrà per lungo tempo addormentarsi nel suo letto, andare a scuola, respirare, bagnarsi sotto la pioggia, sporcarsi di terra, rotolarsi con gli amici, con il proprio cane?

Come farlo riappacificare con il proprio corpo che vede come estraneo, come causa di tutti i cambiamenti che si susseguono giorno dopo giorno, e che ha fatto crollare quelle certezze di bambino, strappandolo dal proprio focolare domestico, protetto dai propri cari? Perché la mamma e il papà non fanno smettere tutto? Di fronte a questa lava di emozioni, come possiamo aiutare, tranquillizzare, rendere più umana un’ospedalizzazione, che di umano non ha nulla?

All’interno della Casa di Davide, chiamata casa, proprio perché si vuole ricreare l’accoglienza e la protezione di una famiglia che la malattia ha rubato, ognuno dei volontari tenta con i propri mezzi e le proprie conoscenze di alleggerire e rallegrare le giornate di questi bambini e dei genitori.

Si canta, si balla, si suona, si fa teatro, si dipinge, si fa psicoterapia e shiatsu. Il mio supporto arriva attraverso il contatto, osservo la loro postura, il ritmo del loro respiro, il loro sguardo.

Li accolgo fra le mani, ascoltando le vibrazioni che il corpo mi rimanda, cercando di renderli consapevoli di ogni loro parte, quasi a voler ricompattare i pezzi che sembrano disgregarsi.

Renderli partecipi e consapevoli di sé stessi, far in modo che si ascoltino.

È meraviglioso osservare come pian piano il loro piccolo corpo si rilassa, il respiro si regolarizza.

Spesso si addormentano, vinti dalla stanchezza, tranquillizzati. Finito il trattamento e in quelli successivi, chiedono quello di cui hanno bisogno, di soffermarsi di più sulle gambe o sul collo, prima ancora che inizi una nuova seduta, perché ne hanno avuto giovamento.

Mi chiedono di fargli passare il mal di testa, il mal di stomaco. Sono più propensi a parlare.

Raccontano della loro casa, di ciò che facevano, di ciò che fanno ora, delle novità, delle medicine che devono prendere, di aspettarli quando tornano dall’ospedale.

Descrivono le loro impressioni, amano il calore delle mani sulla pancia, sulla schiena, sentono quando circolazione ed energia si muovono.

Pian piano si instaura una fiducia reciproca, si affidano, attendendo il prossimo trattamento. I loro visi si illuminano quando varco la soglia, si mettono in fila, aspettando il loro turno.

Ed è sempre una soddisfazione, e continuo a sorprendermi ogni volta, quando i genitori chiamano per mettermi al corrente dei miglioramenti: la muscolatura rinforzata in bambini che faticavano a camminare o portavano il busto, che non usano quasi più la sedia a rotelle per muoversi.

Mangiano con più appetito, sono più vitali e tranquilli, e tutto questo in poche settimane.

L’approccio più difficile è con gli adolescenti, che vivono un momento di transizione complicata di dialogo con il proprio sé e con il loro corpo.

Non è facile convincerli a farsi toccare la prima volta, ma superato il primo scoglio, assaporano i benefici che ne derivano e trovano un appoggio, una canalizzazione della loro rabbia.

Abbiamo iniziato questo progetto dedicandolo prevalentemente ai bambini e agli adolescenti, decidendo di allargare e il trattamento anche ai genitori. Le loro emozioni, i loro stati d’animo sono altrettanto importanti.

Si stringono in ranghi saldi e compatti, per sostenere i loro figli, per alleggerire le loro tensioni.

Genitori che hanno dovuto assorbire notizie difficilmente metabolizzate sulla salute dei loro piccoli, incapaci di difenderli, incapaci di accettare. Li vedi affaccendati camminare come soldati rigidi, il respiro sospeso, la voce atona.

Quando è stato proposto loro il trattamento, inizialmente si sentivano quasi in colpa perché quell’ora dedicata a sé stessi era quasi un’ora rubata ai propri figli, come se non avessero diritto di star bene, loro che avrebbero attraversato il fuoco pur di liberarli da ogni sofferenza e da un destino incerto.

Una volta rassicurati sul fatto che la loro salute e il loro benessere anche emotivo, li avrebbe resi più forti e capaci di affrontare in modo più nitido la situazione e li avrebbe aiutati positivamente, hanno accettato.

Per certi versi le risposte sono state più evidenti.

A livello emozionale, quell’accumulo di tensione e di pianto, si sono sciolti.

Spesso durante i trattamenti attraverso il tocco la diga si rompe, i loro visi si rigano di lacrime e il loro petto è scosso dai singhiozzi, le tensioni fisiche si allentano, i loro sonno migliora.

Alla fine ci fermiamo a parlare seduti sul futon (materasso dove si effettua il trattamento) e chiedono che cosa ho fatto.

Spiegano come si sono sentiti, che cosa provano, del loro senso di impotenza di fronte a un destino incomprensibile.

Raccontano ricordi che sono tornati alla mente durante il lavoro, dove il pensiero della malattia non li sfiorava lontanamente.

Quando organizzavano le vacanze di Natale o estive, si arrabbiavano per un insufficiente a scuola, o per i pavimenti sporcati dal fango, dando priorità a tante cose futili.

Oggi guardano con altri occhi, dicono.

Sembra che ogni alba abbia un colore diverso, si apprezza ogni momento passato insieme, ogni carezza, ogni risata strappata alla giornata.

Un’attenzione pignola al colorito della pelle, a una nuova escoriazione, a un colpo di tosse, a un raffreddore.

I numeri dei valori, sono letti con trepidazione, uno per volta come se fosse la schedina del superenalotto, se tutti i numeri escono in fila ci si sente le persone più ricche del mondo!

Ogni trattamento raggiunge un piccolo traguardo: la postura cambia, la schiena si raddrizza, il respiro è diverso, lo sguardo si accende.

Le preoccupazioni restano, ciò che cambia è il modo di affrontarle, per non essere schiacciati.

Al consueto appuntamento dalla psicoterapeuta sono più loquaci, quasi avessero liberato l’ingorgo dei pensieri per dar loro voce.

Hanno focalizzato le emozioni dando loro un nome. Spesso accade il contrario, si inizia il percorso con la psicoterapia e vengono sciolti gli ultimi blocchi attraverso lo shiatsu. Il continuo oscillare tra paura e sollievo, che si accumulano nel corpo irrigidendolo, chiudendo la gola, non avendo modo di uscire o essere contenuti rischiano di implodere. Il peso che sostengono è enorme e senza sosta.

Dar loro la possibilità di sfogare la rabbia, il dolore, la paura imparando ad ascoltarsi. Un momento dedicato a loro, una piccola pausa, posare per un attimo il fardello della malattia del proprio figlio, di una realtà in forse.

È molto importante far comprendere loro, che non tolgono nulla al proprio bambino, anzi è un modo per non crollare, che sono esseri umani e che devono ritrovare equilibrio e consapevolezza, che una risata non è un peccato, che una lacrima che scende non li rende meno forti, che appoggiarsi ogni tanto permette loro di affrontare tutto con una prospettiva e una visione nuova.

Fortunatamente le mamme “vecchie” della Casa, ci aiutano molto in questo, spronando quelle nuove a dedicarsi del tempo, a rilassarsi, hanno compreso che anche questo è importante. I bambini sono altro, il loro sentire è libero, non hanno sovrastrutture, gli schemi mentali sono ancora poveri.

Si affidano, perché un tocco gentile e accogliente è ciò che li riporta alla protezione, al calore, alla mano di una madre…

Lucia Licheri

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